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giovedì 25 febbraio 2010

LUCIANO, DJ

Luciano – DJ

Luciano non ha nulla dello stereotipo del dj e se uno non sapesse il lavoro che fa difficilmente riuscirebbe ad immaginarselo.

E’ una persona veramente piacevole, riesce a metterti subito a tuo agio ed il suo sorriso è disarmante.

Lo intervisto nella birreria che frequentiamo entrambi da una vita in una serata di grande confusione.

Riusciamo a trovare un tavolo appartato e davanti a due birre ed al mio taccuino iniziamo la nostra chiacchierata.


Partiamo subito forte, come si diventa DJ e non musicista?

Da piccolo ho preso lezioni di piano, ma ero un po’ “indisciplinato” e soprattutto non ero caparbio. La studio della musica è una cosa molto “seria” e richiede molta disciplina. Inoltre la mia maestra di piano era un’artista “pazzoide”, anziana e viveva in una casa piena di gatti e questo mi distraeva molto.

Diciamo che questo insieme di cose hanno spento dentro di me la scintilla verso lo studio del piano.

La musica per me però è sempre stata un istinto, più crescevo e più me ne rendevo conto. Era il mio linguaggio espressivo, era quello che colpiva di più il mio immaginario: più dei libri, molto più dei film.

A 14 anni, nel 1984, c’è stato il mio “matrimonio” con la musica o quello che scherzosamente chiamo il mio “peccato originale”, un concerto di Pino Daniele al vecchio stadio comunale di Torino.

È stata davvero un’illuminazione. Aveva una band incredibile, percussioni, fiati, era un misto di tutti i generi musicali che conoscevo. Suonavano incredibilmente bene, come si usa dire “spaccavano”, ho provato delle emozioni fortissime.

Pino cambiò veramente tutto per me.

Da li partì il mio amore per la musica afro-americana e per la musica nera in generale.

Iniziai così la mia personale ricerca. Soprattutto durante gli anni ‘80 ascoltavo musica diversa rispetto a quella dei miei coetanei. Mi interessavo anche di musica fusion.

Col tempo non suonando uno strumento iniziai a selezionare musica.

Poi nella seconda metà degli anni ’80 arrivò l’altra mia folgorazione nella veste della musica hip hop: Run Dmc, Public Enemy, De La Soul, A tribed called quest.

Hai comprato i primi piatti in quel periodo?

Si, le prime cose.

Mettevo musica alle feste private, ai compleanni. Diciamo che improvvisavo molto.

Ricordo una volta che mettevo musica ad una festa. Continuavano a chiedermi di cambiare genere, di mettere musica più commerciale, ma io ostinatamente continuavo con i miei pezzi.

La festa finì con me e la festeggiata a litigare!

Poi sono arrivati i primi ingaggi?

Gli anni ’90 sono stati anni di formazione, facevo cose saltuarie, diciamo che era ancora una grande passione, ma capivo che questa passione poteva diventare il mio lavoro.

Poi verso la fine del decennio con Cato (chitarrista dei bluebeaters) e Paolo Parpaglione mettiamo in piedi il progetto dei Motorcity. Era un trio formato da basso, sax e dj. Facevamo musica house, dance, avevamo la velleità di fare live set.

All’interno del progetto il mio era un approccio più da musicista che da dj. “Suonavo” con i musicisti, il mio obiettivo era di interagire con la band.

Avete iniziato a suonare nei locali?

Si, abbiamo fatto veramente tanti concerti. Avevamo una residenza fissa mensile a “La casa” di Milano.

Da li sono diventato dj selecta al “Bar code”, al “km 5”, la cosa cresceva col tempo.

La situazione si è poi consolidata con la residenza fissa del venerdì sera al “Fluido”, il venerdì black, che continua tutt’ora da 7 anni.

Prepari le serate in qualche modo?

Non le preparo prima. Mi affido alle sensazioni ed al pubblico che ho davanti. Nelle serate non sai mai che pubblico ci sarà, per cui attendo il loro feedback e cerco di guidare la serata.

Bisogna avere la capacità di capire il pubblico: osare quando la situazione lo permette o avere la capacità di capire quando è il caso di rimanere nei “canoni”.

La residenza in un locale per me vuol dire saper captare i segnali della gente, trovare il mix dignitoso tra il proprio gusto e quello più commerciale del pubblico. Devi saper capire i flussi del locale: il bar, la pista, il momento della sigaretta; è fondamentale saper capire l’ambiente.

Cosa ti piace dell’essere dj?

Che per me è la cosa più bella. Faccio la cosa che più mi piace e questo non me lo fa sentire un lavoro. Ti pagano per fare cosa ti piace!

Nelle serate intrattengo e faccio divertire la gente, non ho la supponenza di sentirmi un’artista, ma ci metto tutta la mia passione. Quando al mattino vedo la gente che se ne va divertita io sono soddisfatto.

Qual è stato finora quello che consideri il tuo momento più “alto”?

Forse quando con i Motorcity abbiamo aperto il concerto di Saint Germain alla Pellerina. Saliamo sul palco, alzo la testa e vedo una marea di gente.

E poi sempre con i Motorcity un capodanno a Genova. La piazza era piena e prima del concerto ho messo dischi. Dopo pochi minuti tutti ballavano, veramente una bella soddisfazione!

Progetti per il futuro?

I Cistifellas: è un gruppo sempre con Cato, Seba e Davide Enphy. È una formazione con una componete elettronica più spiccata rispetto ai Motorcity. Stiamo ancora cercando la giusta collocazione da dare al progetto.

Poi faccio delle serate con NextOne, personaggio storico della musica hip hop/black torinese, ma conosciuto in tutta Italia.

Un aneddoto divertente?

Durante una serata avevo messo da 2 minuti un disco di James Brown quando arriva un tipo e mi fa: “so che non c’entra niente con la serata, ma dopo potresti mettere un po’ di musica funky?” ed ahimè era serio.

E tu cos’hai risposto?

“Si, più tardi la metto”!


Per la cronaca Luciano per due anni ha condiviso la console con Giuseppe Culicchia al Bar code.


Myspace: www.myspace.com/lucianosuperpeople

Sito fluido: http://www.fluido.to/index.php?option=com_content&view=article&id=12:dj-luciano&catid=4:resident

martedì 16 febbraio 2010

SUSY, LA SARTA STORTA

Susy, LA SARTA STORTA

Ho conosciuto Susy, alias La Sarta Storta, grazie a questa avventura di Turin Calling. Come immaginavo e speravo il blog inizia a vivere di vita “propria”, iniziano a crearsi intrecci e situazioni casuali, ma proprio per questo molto affascinanti.

Susy viene a trovarmi con una borsa piena delle sue creazioni e vi assicuro che sono veramente interessanti ed esprimono appieno la sua creatività e la sua solarità.


Ciao Susy. Incominciamo subito dal nome d’arte: perché “Sarta Storta”?

Sin da piccola mio fratello diceva che ero “storta”. In casa ero quella con l’animo da artista, avevo sempre la testa tra le nuvole ed effettivamente questo mi portava ad avere un’andatura “storta”.

Ho sempre avuto la passione per la ceramica, per le tecniche raku, i lavori a maglia, il disegno, la scrittura.

Guardavo spesso mia mamma lavorare con la macchina da cucire in cucina, ma quella macchina era “sacra” e nessuno poteva toccarla all’infuori di lei.

Poi appena ho potuto ne ho comprata una mia ed ho incominciato a lavorare. Mi sono accorta che spesso le mie cuciture andavano storte, per cui ho pensato che di sarte che vanno dritte ce ne sono tante, mentre sarte che vanno storte nessuna.

Da li ho deciso di chiamarmi “La sarta storta”.

Come è partita la tua attività?

Ho iniziato a vendere agli amici poi una mia amica mi ha fatto il sito e nel frattempo ho incominciato a partecipare ai primi mercatini.

Quello che funziona veramente però è il passaparola, l’ho sperimentato con le vendite di Natale e questo mi ha dato molta soddisfazione.

Qual è la tua filosofia?

Quella di riciclare con estro.

Alcune aziende mi regalano scarti di stoffe, di tessuti, ho delle sarte che mi lasciano glia scarti delle loro lavorazioni. Adesso che sanno quello che faccio molte persone mi portano a loro volta avanzi, abiti non più utilizzati o materiale che pensano io possa recuperare.

Cerco di comprare meno materiale possibile, di fare della creatività a basso impatto.

Poi cerco di dare dei nomi simpatici alle mie creazioni come ad esempio la borsa “antistronza”.

Faccio delle borse di stoffa spessa utilizzando i campionari delle stoffe per i divani.

Ho inventato l’”anticentrino”: non bianco e ricamato come quello della nonna, ma colorato e pazzo, da mettere dove si vuole.

Questo è il tuo unico lavoro?

No, ma l’attività di sarta Storta è una passione che ultimamente mi sta dando molte soddisfazioni e che sta crescendo piano piano.

Incontro molte persone e molte di loro mi seguono su internet, mi danno consigli.

Spesso metto nelle mie creazioni dei biglietti che scrivo io con delle frasi buffe tipo “riciclo tutto anche i fidanzati” oppure “hai veramente buon gusto” e questo sembra piacere molto. Aggiungo anche delle ricette su come prepararsi in casa dei detersivi ecologici e delle idee su come riutilizzare i materiali.

Per ora partecipo al “gran balon” e a volte vengo invitata dalle associazioni di artigiani ed espongo con loro.

Mi hai detto che scrivi, che cosa?

Delle poesie che ho intitolato “poesie puercarie”. E poi un libro di cucina per precari e dei racconti.

Ho fatto un corso di scrittura per bambini ed ora sto cercando di scrivere delle fiabe.

Era quasi sul punto di pubblicare le poesie, ma poi l’editore è “scappato”.

Qual è il tuo tipo di clientela?

Moltissime donne simpatiche, giovani, persone che condividono l’idea del riciclo.

Direi tutta gente molto positiva.

Cosa vorresti fare da “grande”?

Mi piacerebbe riuscire ad aprire un mio laboratorio per creare ed esporre le mie cose. Questo però è un momento molto difficile… e la cosa mi spaventa un po’. Ma non per questo mollo la mia passione, se potessi mi dedicherei a questo tutta la giornata.

Che cosa ti da l’ispirazione?

I colori delle stoffe! Come si muovono tra le mani e come si abbinano tra di loro.

Io sono nata a Genova e c’è molto della mia città nelle mie creazioni.

In generale sono una persona curiosa e cerco spunti dalle persone per strada da quello da cui sono attratti i miei occhi.

Poi mi piace molto fare regali e pensare a cosa fare per una persona mi ispira molto!!!

Cosa pensano i tuoi amici di questa tua passione?

Sono i miei primi sostenitori!

Mi danno consigli, mi aiutano con i mercatini e soprattutto sono loro che testano i miei prototipi.

L’ultimo l’ho chiamato “skazzofu”. L’ho fatto per una mia carissima amica; è un mostriciattolo di stoffa dallo sguardo maligno, sembra una bambola vodoo… mangia solo pasta al forno e ti fa passare lo scazzo (segue una gran risata di Susy).


Di seguito i riferimenti per trovare e contattare Susy:

Sito: http://www.sartastorta.com

Myspace: http://www.myspace.com/sartastorta

Facebook: http://www.facebook.com/profile.php?id=100000023267443&ref=ts

venerdì 5 febbraio 2010

ILA ROSSO - ANTAUTORE



Ila Rosso - ANTAUTORE

Incontro Ilario, in arte Ila, una sera in birreria.

Lo avevo ascoltato un po’ di tempo fa durante un concerto e mi aveva colpito il suo modo “vecchia maniera” di presentarsi sul palco: da solo con la sua chitarra acustica. I testi inoltre risultavano non “facili”, nel senso che andavano ascoltati, elaborati, “masticati”.

Eppure Ila sembrava molto tranquillo, con un sorriso sornione sul viso, come a voler sfidare il pubblico, sapendo di fare qualcosa di particolare.

La cosa mi aveva colpito molto e mi era nata la voglia di questa intervista.


Come hai iniziato a suonare Ila?

Ho iniziato con la mia prima chitarra a 15 anni.

Mio padre ascoltava Fabrizio De Andrè, Gipo Farassino, Fred Buscaglione, queste sono le mie radici, è da li che vengo.

Sono un chitarrista autodidatta.

Andando al liceo ho cantato in un gruppo che faceva cover dei doors. Nel frattempo l’anima si faceva più ribelle usciva la rabbia giovanile ed iniziavo ad ascoltare molto rock, soprattutto italiano: CCCP, Massimo Volume, Marlene Kuntz.

Dal 1998 al 2003 ho militato in un gruppo che si chiamava Margine Critico. Cantavo i pezzi che io scrivevo.

Poi il gruppo si è sciolto; diciamo che con l’inizio dell’università ognuno è andato per la sua strada o forse semplicemente io ci credevo più degli altri.

Perché hai deciso di andare avanti salendo da solo sul palco?

Il passo è stato quasi naturale. I testi li avevo sempre scritti io. In quel periodo facevo anche cose elettroniche, avevo composto anche un radiodramma e poi come ti ho già detto le mie origini provengono dai cantautori.

Volevo far parte anche io di questa corrente, della musica popolare nel senso non dispregiativo del termine, volevo mantenere il legame con la tradizione. Diciamo che salire sul palco con la chitarra è un po’ il mio modo per celebrarla.

Prima il mio era un cantare più parlato, ora lo è un po’ meno. Mi piace giocare con i testi un po’ come un poeta che gioca con le parole.

Hai una tecnica per scrivere?

Non ho un metodo preciso. Sono emozioni che si sentono dentro, in più non avendo un vero e proprio lavoro ho molto tempo per farle maturare. In testa ho sempre musica che mi gira.

Catturo un’immagine che sta li finché non diventa qualcosa, uno slogan.

Lo slogan poi diventa il pezzo forte della canzone, il ritornello, quello che ti porta al tema scelto.

La forma canzone per me non è stata una scelta, mi ci sono ritrovato.

Scrivi di getto?

Sempre. Per me è un’abitudine. Ha volte mi canto delle bozze, delle immagini sul cellulare. Poi con calma le riprendo e le rielaboro.

Prima facevo tutto subito, scrivevo testo e musica e la canzone rimaneva quella della prima stesura.

Adesso modifico, rivedo il contenuto, cerco le parole giuste. Per me il testo è fondamentale, la musica è funzionale al testo.

Nelle mie canzoni cerco di dire “cose”, non da maestro, ma da semplice osservatore, chiaramente con i miei occhi e le mie idee; i miei testi vogliono essere un misto di poesia e cronaca.

Diciamo una specie di cantastorie moderno.

La tua canzone preferita?

Non ce n’è una in particolare. Normalmente sono molto affezionato alle ultime, perché fanno parte di un percorso di crescita.

Nelle prime trovi i difetti di gioventù, anche se poi riascoltando quelle più vecchie mi sorprendo di aver scritto cose che continuano a piacermi e ad emozionarmi.

Progetti futuri?

Al momento faccio uno spettacolo accompagnato da un bravissimo batterista, ci sono dei musicisti che gravitano intorno con cui spero di fare qualcosa e sto lavorando per inserire un violoncellista che mi accompagni. L’idea mi piace molto.

Ma forse anche qualcosa con solo piano. Vedremo.

Cosa vuol dire per te salire sul palco?

Per me è come stare dentro una bolla.

Non capisci bene quello che ti succede intorno. Cerco sempre di non guardare il pubblico: osservo la mia chitarra, l’orizzonte.

Poi ti accorgi che c’è un respiro comune con la gente. Un forte scambio di energia. Nelle serate in cui tutto va per il meglio questa sensazione è quasi palpabile e come se fossimo un tutt’uno, io e il pubblico, il pubblico ed io.

Come senti dopo il concerto?

Mi sento ovattato. La bolla esplode e ti trovi la gente intorno che ti fa i complimenti, ti da la propria interpretazioni delle tue canzoni.

Mi arrivano un sacco di stimoli che mi restano li e che riesco a rielaborare solamente dopo un po’ di tempo.

Ho assistito ad un tuo concerto. Tu parli poco sul palco, è una scelta?

Penso che le canzoni parlino da sole.

Ila, perché la locandina dei tuoi spettacoli recita “Antautore in concerto”?

Diciamo che ci ha pensato il destino. Stavo preparando una locandina e nel scrivere cantautore la tastiere si è mangiata la “C”. Da quel momento è diventato immediatamente "Antautore" come segno di quel "distacco" (a livello poetico musicale) da tutto il fiorente mercato e dalla pretesa di voler fare a tutti i costi "musica d'autore" (intesa in senso "commerciale").

Consiglio di ascoltare dal suo myspace la canzone “Il figlio di papà”!

Questi sono i riferimenti di Ila:

myspace: www.myspace.com/leiden3

fb: http://www.facebook.com/pages/ilario-rosso/77051968745


Prossimi concerti di Ila:

6 FEBBRAIO “Notte rossa barbera”

http://www.facebook.com/home.php?#!/event.php?eid=465626655182&ref=mf
e
http://www.sottoilcielodifred.it/programma/gastronomia/notte-rossa-barbera

27 FEBBRAIO al Circolo Sud (via P.Tommaso 18 bis)