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venerdì 26 marzo 2010

GIULIANA, DANZATRICE

Giuliana – Danzatrice

Parlare con Giuliana è un po’ come fare un viaggio a 360 gradi nel mondo della danza e delle sue diverse declinazioni.

Tante sono state le sue esperienze e molto curioso è il suo percorso formativo e di vita.

Inutile dire che il suo entusiasmo per la danza è contagioso.

Com’è entrata la danza nella tua vita?

A 5 anni. I miei genitori mi hanno iscritto, ero la sorella più piccola ed in un certo senso era normale che seguissi le “orme” della più grande.

Avevo preso anche lezioni di piano, ma dopo 3 mesi non ero più voluta andare: ancora oggi odio i martelletti.

Ero una bambina che non stava mai ferma e la danza con me ha funzionato subito. Ho proseguito gli studi secondo il metodo della Royal Academy of Dancing (quello inglese) fino alla seconda media. Ricordo che avevo sempre delle pagelline splendide.

Poi con l’arrivo a Torino di Enrico Sportello (ballerino scaligero) e di Susanna Della Pietra (danzatrice e coreografa svizzera), passai al Dance Center – che ora non c’è più - dove insegnavano, tra le altre discipline, la tecnica di Marta Graham. Susanna, un vero talento nell’insegnamento quanto nella coreografia, si era diplomata alla prestigiosa Royal Ballet School, aveva frequentato la London Contemporary Dance School (Londra) e la Martha Graham School of Contemporary Dance (New York) e ci ha trasmesso forza, passione e un senso di disciplina pazzeschi. E’ stata una formazione incredibile.

Andavo a scuola tutti i giorni: oltre alle lezioni di classica facevo una lezione di Graham e una di carattere ogni settimana. Avanti così fino a 19 anni.

Poi la scuola dovette chiudere per motivi amministrativi.

Feci alcune esperienze, tra cui una partecipazione nella piéce “Futurismo e Futurismi”, creata da un gruppo di studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Torino che per me rappresentavano dei veri… alternativi! E altre cose, tra cui un musical fra i primi creati nel circuito giovanile torinese, “Il Grande Acero Rosso”, alcune partecipazioni all’interno della compagnia classica “Alpheratz”, diretta da un altro maestro torinese attivo ancora oggi (Giulio Cantello).

In quei tempi studiavo veramente tantissimo e la mia dedizione era massima.

Non avevo voluto provare alla Scala di Milano perché allora non avevo una maturità piena dell’importanza della danza per me, ed inoltre perché assorbivo dall’ambiente familiare spinte di realizzazione verso altre direzioni.

Per me furono anni un po’ di “sbandamento”.

C’erano i problemi della scuola Dance Center, mi iscrissi a lettere (da sempre mi piace scrivere), intanto approfondivo lo studio della danza contemporanea. Sono andata in Belgio per conoscere i fiamminghi e in Francia per uno studio sul rapporto tra danza e ambiente, infine in Germania.

In quel periodo ci fu il mio primo avvicinamento al teatro danza.

Facevi spettacoli?

Ho recitato e danzato in uno spettacolo sulla rivista dal titolo “Hai mai visto la Rivista?” e in una commedia musicale “Punto, virgola e a capo”). E in molti altri, “La storia del Gatto e della Gabbianella…” per le scuole e in una pièce su Duke Ellington. “La promessa di Bernard” e “Talita Kumi” sono state le prime partecipazioni a lavori più vicini al teatro - danza.

In quel periodo è nato il mio amore per il ballo d’epoca che conservo tutt’ora. Diciamo che è un’eredità familiare trasmessami da mio padre che fin da giovane aveva aperto un’associazione culturale (Ca Nostra).

Per passione scriveva recital e io ne facevo le coreografie.

Sbaglio o anche tu ora hai un’associazione tutta tua?

Si, l’ho aperta nell’aprile del 2009 con il supporto di alcuni amici. Diciamo che è un po’ figlia spirituale di Ca Nostra.

Per ora è un’incubatrice di idee. Mi piacerebbe poter insegnare danza, ma non fare una semplice scuola; vorrei lavorare con i bambini, dar spazio alla loro creatività, legare scrittura e danza.

Torniamo al teatro danza, com’è che ci sei arrivata?

Dopo il primo approccio di cui ti ho già parlato mi sono riavvicinata a causa di un infortunio.

Stavo danzando “La Gabbianella ed il Gatto” per le scuole e mi infortunai cadendo.

Questo incidente mi ha lasciato un’ernia al disco che ha limitato un po’ i movimenti e mi ha aiutato a buttarmi nell’esperienza del teatro danza.

Mi piace perché è una pratica psicomotoria che esalta il potere espressivo del gesto e collega la mente ed il corpo.

Cosa provi quando danzi?

Tantissima gioia.

Percepisco il piacere del movimento, mi piace l’espressività di certi gesti tecnici. Forse in quei momenti vado anche un po’ al di là di me.

Supero il mal di schiena, vado verso il mio limite.

Provo il gusto, questo è proprio il termine giusto, di distendere le gambe.

E poi c’è la ricerca della perfezione.

Ho visto un tuo spettacolo in cui sei da sola sul palco per quasi un’ora e mi ha colpito molto la tua forma fisica; Giuliana come ti alleni?

In questo periodo sono entrata nel progetto di un musical per cui faccio prove due volte a settimana.

Una volta ogni 15 giorni vado in piscina e nuoto per la mia schiena. Ho iniziato Yoga, cerco di fare almeno una lezione di classica a settimana e poi ogni tanto vado a correre. E poi quando corro pronuncio le vocali ad alta voce… col timore che chi mi vede mi prenda per pazza!

Ho letto un tuo volantino in cui insegni Tip Tap… ma come viene l’idea di ballare il Tip Tap e c’è gente che si iscrive ai corsi?

Funziona perché c’è molta richiesta e poca offerta. Ci sono tante persone che amano muoversi danzando, non è impegnativo come il Tango e poi… esiste ancora il mito di Ginger e Fred.

C’è un ritorno della danza d’epoca. C’è poesia nel Tip Tap, è una declinazione differente della danza.

L’ho imparato a 8 anni, c’era un insegnante che faceva anche Tip Tap e quei passi non li dimenticherò mai.

Un aneddoto simpatico?

Nel 2005 ho scritto uno spettacolo dal titolo “La Gonna dei Sogni”. È uno spettacolo molto “mio”, autobiografico. Ci sono 2 marionette ballerine ed un mastro burattinaio. Durante lo spettacolo compaiono delle gonne enormi.

Le gonne identificano i doveri imposti. Le ballerine su comando del mastro burattinaio fanno compiti, lezioni di danza classica, danza moderna, tip tap.

Insomma sarebbe lungo raccontarlo tutto.

Per farla breve prima del debutto dello spettacolo sono andata nel palazzo dove sorgeva la scuola di danza. Con la scusa di dover mettere delle pubblicità in buca mi sono fatta aprire, sono scesa nei garage, ho cercato di ritrovare il punto dove più o meno c’era il palco ed ho rifatto la combinazione di passi del bolero che facevo a 14 anni.

Ho cercato di recuperare con la mente ed il corpo la memoria dei luoghi.

E’ stato molte emozionante!

Riferimenti di Giuliana:

Sito:http://debut.appix.net/

Mail: giuliana.garavini@gmail.com

giovedì 25 febbraio 2010

LUCIANO, DJ

Luciano – DJ

Luciano non ha nulla dello stereotipo del dj e se uno non sapesse il lavoro che fa difficilmente riuscirebbe ad immaginarselo.

E’ una persona veramente piacevole, riesce a metterti subito a tuo agio ed il suo sorriso è disarmante.

Lo intervisto nella birreria che frequentiamo entrambi da una vita in una serata di grande confusione.

Riusciamo a trovare un tavolo appartato e davanti a due birre ed al mio taccuino iniziamo la nostra chiacchierata.


Partiamo subito forte, come si diventa DJ e non musicista?

Da piccolo ho preso lezioni di piano, ma ero un po’ “indisciplinato” e soprattutto non ero caparbio. La studio della musica è una cosa molto “seria” e richiede molta disciplina. Inoltre la mia maestra di piano era un’artista “pazzoide”, anziana e viveva in una casa piena di gatti e questo mi distraeva molto.

Diciamo che questo insieme di cose hanno spento dentro di me la scintilla verso lo studio del piano.

La musica per me però è sempre stata un istinto, più crescevo e più me ne rendevo conto. Era il mio linguaggio espressivo, era quello che colpiva di più il mio immaginario: più dei libri, molto più dei film.

A 14 anni, nel 1984, c’è stato il mio “matrimonio” con la musica o quello che scherzosamente chiamo il mio “peccato originale”, un concerto di Pino Daniele al vecchio stadio comunale di Torino.

È stata davvero un’illuminazione. Aveva una band incredibile, percussioni, fiati, era un misto di tutti i generi musicali che conoscevo. Suonavano incredibilmente bene, come si usa dire “spaccavano”, ho provato delle emozioni fortissime.

Pino cambiò veramente tutto per me.

Da li partì il mio amore per la musica afro-americana e per la musica nera in generale.

Iniziai così la mia personale ricerca. Soprattutto durante gli anni ‘80 ascoltavo musica diversa rispetto a quella dei miei coetanei. Mi interessavo anche di musica fusion.

Col tempo non suonando uno strumento iniziai a selezionare musica.

Poi nella seconda metà degli anni ’80 arrivò l’altra mia folgorazione nella veste della musica hip hop: Run Dmc, Public Enemy, De La Soul, A tribed called quest.

Hai comprato i primi piatti in quel periodo?

Si, le prime cose.

Mettevo musica alle feste private, ai compleanni. Diciamo che improvvisavo molto.

Ricordo una volta che mettevo musica ad una festa. Continuavano a chiedermi di cambiare genere, di mettere musica più commerciale, ma io ostinatamente continuavo con i miei pezzi.

La festa finì con me e la festeggiata a litigare!

Poi sono arrivati i primi ingaggi?

Gli anni ’90 sono stati anni di formazione, facevo cose saltuarie, diciamo che era ancora una grande passione, ma capivo che questa passione poteva diventare il mio lavoro.

Poi verso la fine del decennio con Cato (chitarrista dei bluebeaters) e Paolo Parpaglione mettiamo in piedi il progetto dei Motorcity. Era un trio formato da basso, sax e dj. Facevamo musica house, dance, avevamo la velleità di fare live set.

All’interno del progetto il mio era un approccio più da musicista che da dj. “Suonavo” con i musicisti, il mio obiettivo era di interagire con la band.

Avete iniziato a suonare nei locali?

Si, abbiamo fatto veramente tanti concerti. Avevamo una residenza fissa mensile a “La casa” di Milano.

Da li sono diventato dj selecta al “Bar code”, al “km 5”, la cosa cresceva col tempo.

La situazione si è poi consolidata con la residenza fissa del venerdì sera al “Fluido”, il venerdì black, che continua tutt’ora da 7 anni.

Prepari le serate in qualche modo?

Non le preparo prima. Mi affido alle sensazioni ed al pubblico che ho davanti. Nelle serate non sai mai che pubblico ci sarà, per cui attendo il loro feedback e cerco di guidare la serata.

Bisogna avere la capacità di capire il pubblico: osare quando la situazione lo permette o avere la capacità di capire quando è il caso di rimanere nei “canoni”.

La residenza in un locale per me vuol dire saper captare i segnali della gente, trovare il mix dignitoso tra il proprio gusto e quello più commerciale del pubblico. Devi saper capire i flussi del locale: il bar, la pista, il momento della sigaretta; è fondamentale saper capire l’ambiente.

Cosa ti piace dell’essere dj?

Che per me è la cosa più bella. Faccio la cosa che più mi piace e questo non me lo fa sentire un lavoro. Ti pagano per fare cosa ti piace!

Nelle serate intrattengo e faccio divertire la gente, non ho la supponenza di sentirmi un’artista, ma ci metto tutta la mia passione. Quando al mattino vedo la gente che se ne va divertita io sono soddisfatto.

Qual è stato finora quello che consideri il tuo momento più “alto”?

Forse quando con i Motorcity abbiamo aperto il concerto di Saint Germain alla Pellerina. Saliamo sul palco, alzo la testa e vedo una marea di gente.

E poi sempre con i Motorcity un capodanno a Genova. La piazza era piena e prima del concerto ho messo dischi. Dopo pochi minuti tutti ballavano, veramente una bella soddisfazione!

Progetti per il futuro?

I Cistifellas: è un gruppo sempre con Cato, Seba e Davide Enphy. È una formazione con una componete elettronica più spiccata rispetto ai Motorcity. Stiamo ancora cercando la giusta collocazione da dare al progetto.

Poi faccio delle serate con NextOne, personaggio storico della musica hip hop/black torinese, ma conosciuto in tutta Italia.

Un aneddoto divertente?

Durante una serata avevo messo da 2 minuti un disco di James Brown quando arriva un tipo e mi fa: “so che non c’entra niente con la serata, ma dopo potresti mettere un po’ di musica funky?” ed ahimè era serio.

E tu cos’hai risposto?

“Si, più tardi la metto”!


Per la cronaca Luciano per due anni ha condiviso la console con Giuseppe Culicchia al Bar code.


Myspace: www.myspace.com/lucianosuperpeople

Sito fluido: http://www.fluido.to/index.php?option=com_content&view=article&id=12:dj-luciano&catid=4:resident

martedì 16 febbraio 2010

SUSY, LA SARTA STORTA

Susy, LA SARTA STORTA

Ho conosciuto Susy, alias La Sarta Storta, grazie a questa avventura di Turin Calling. Come immaginavo e speravo il blog inizia a vivere di vita “propria”, iniziano a crearsi intrecci e situazioni casuali, ma proprio per questo molto affascinanti.

Susy viene a trovarmi con una borsa piena delle sue creazioni e vi assicuro che sono veramente interessanti ed esprimono appieno la sua creatività e la sua solarità.


Ciao Susy. Incominciamo subito dal nome d’arte: perché “Sarta Storta”?

Sin da piccola mio fratello diceva che ero “storta”. In casa ero quella con l’animo da artista, avevo sempre la testa tra le nuvole ed effettivamente questo mi portava ad avere un’andatura “storta”.

Ho sempre avuto la passione per la ceramica, per le tecniche raku, i lavori a maglia, il disegno, la scrittura.

Guardavo spesso mia mamma lavorare con la macchina da cucire in cucina, ma quella macchina era “sacra” e nessuno poteva toccarla all’infuori di lei.

Poi appena ho potuto ne ho comprata una mia ed ho incominciato a lavorare. Mi sono accorta che spesso le mie cuciture andavano storte, per cui ho pensato che di sarte che vanno dritte ce ne sono tante, mentre sarte che vanno storte nessuna.

Da li ho deciso di chiamarmi “La sarta storta”.

Come è partita la tua attività?

Ho iniziato a vendere agli amici poi una mia amica mi ha fatto il sito e nel frattempo ho incominciato a partecipare ai primi mercatini.

Quello che funziona veramente però è il passaparola, l’ho sperimentato con le vendite di Natale e questo mi ha dato molta soddisfazione.

Qual è la tua filosofia?

Quella di riciclare con estro.

Alcune aziende mi regalano scarti di stoffe, di tessuti, ho delle sarte che mi lasciano glia scarti delle loro lavorazioni. Adesso che sanno quello che faccio molte persone mi portano a loro volta avanzi, abiti non più utilizzati o materiale che pensano io possa recuperare.

Cerco di comprare meno materiale possibile, di fare della creatività a basso impatto.

Poi cerco di dare dei nomi simpatici alle mie creazioni come ad esempio la borsa “antistronza”.

Faccio delle borse di stoffa spessa utilizzando i campionari delle stoffe per i divani.

Ho inventato l’”anticentrino”: non bianco e ricamato come quello della nonna, ma colorato e pazzo, da mettere dove si vuole.

Questo è il tuo unico lavoro?

No, ma l’attività di sarta Storta è una passione che ultimamente mi sta dando molte soddisfazioni e che sta crescendo piano piano.

Incontro molte persone e molte di loro mi seguono su internet, mi danno consigli.

Spesso metto nelle mie creazioni dei biglietti che scrivo io con delle frasi buffe tipo “riciclo tutto anche i fidanzati” oppure “hai veramente buon gusto” e questo sembra piacere molto. Aggiungo anche delle ricette su come prepararsi in casa dei detersivi ecologici e delle idee su come riutilizzare i materiali.

Per ora partecipo al “gran balon” e a volte vengo invitata dalle associazioni di artigiani ed espongo con loro.

Mi hai detto che scrivi, che cosa?

Delle poesie che ho intitolato “poesie puercarie”. E poi un libro di cucina per precari e dei racconti.

Ho fatto un corso di scrittura per bambini ed ora sto cercando di scrivere delle fiabe.

Era quasi sul punto di pubblicare le poesie, ma poi l’editore è “scappato”.

Qual è il tuo tipo di clientela?

Moltissime donne simpatiche, giovani, persone che condividono l’idea del riciclo.

Direi tutta gente molto positiva.

Cosa vorresti fare da “grande”?

Mi piacerebbe riuscire ad aprire un mio laboratorio per creare ed esporre le mie cose. Questo però è un momento molto difficile… e la cosa mi spaventa un po’. Ma non per questo mollo la mia passione, se potessi mi dedicherei a questo tutta la giornata.

Che cosa ti da l’ispirazione?

I colori delle stoffe! Come si muovono tra le mani e come si abbinano tra di loro.

Io sono nata a Genova e c’è molto della mia città nelle mie creazioni.

In generale sono una persona curiosa e cerco spunti dalle persone per strada da quello da cui sono attratti i miei occhi.

Poi mi piace molto fare regali e pensare a cosa fare per una persona mi ispira molto!!!

Cosa pensano i tuoi amici di questa tua passione?

Sono i miei primi sostenitori!

Mi danno consigli, mi aiutano con i mercatini e soprattutto sono loro che testano i miei prototipi.

L’ultimo l’ho chiamato “skazzofu”. L’ho fatto per una mia carissima amica; è un mostriciattolo di stoffa dallo sguardo maligno, sembra una bambola vodoo… mangia solo pasta al forno e ti fa passare lo scazzo (segue una gran risata di Susy).


Di seguito i riferimenti per trovare e contattare Susy:

Sito: http://www.sartastorta.com

Myspace: http://www.myspace.com/sartastorta

Facebook: http://www.facebook.com/profile.php?id=100000023267443&ref=ts

venerdì 5 febbraio 2010

ILA ROSSO - ANTAUTORE



Ila Rosso - ANTAUTORE

Incontro Ilario, in arte Ila, una sera in birreria.

Lo avevo ascoltato un po’ di tempo fa durante un concerto e mi aveva colpito il suo modo “vecchia maniera” di presentarsi sul palco: da solo con la sua chitarra acustica. I testi inoltre risultavano non “facili”, nel senso che andavano ascoltati, elaborati, “masticati”.

Eppure Ila sembrava molto tranquillo, con un sorriso sornione sul viso, come a voler sfidare il pubblico, sapendo di fare qualcosa di particolare.

La cosa mi aveva colpito molto e mi era nata la voglia di questa intervista.


Come hai iniziato a suonare Ila?

Ho iniziato con la mia prima chitarra a 15 anni.

Mio padre ascoltava Fabrizio De Andrè, Gipo Farassino, Fred Buscaglione, queste sono le mie radici, è da li che vengo.

Sono un chitarrista autodidatta.

Andando al liceo ho cantato in un gruppo che faceva cover dei doors. Nel frattempo l’anima si faceva più ribelle usciva la rabbia giovanile ed iniziavo ad ascoltare molto rock, soprattutto italiano: CCCP, Massimo Volume, Marlene Kuntz.

Dal 1998 al 2003 ho militato in un gruppo che si chiamava Margine Critico. Cantavo i pezzi che io scrivevo.

Poi il gruppo si è sciolto; diciamo che con l’inizio dell’università ognuno è andato per la sua strada o forse semplicemente io ci credevo più degli altri.

Perché hai deciso di andare avanti salendo da solo sul palco?

Il passo è stato quasi naturale. I testi li avevo sempre scritti io. In quel periodo facevo anche cose elettroniche, avevo composto anche un radiodramma e poi come ti ho già detto le mie origini provengono dai cantautori.

Volevo far parte anche io di questa corrente, della musica popolare nel senso non dispregiativo del termine, volevo mantenere il legame con la tradizione. Diciamo che salire sul palco con la chitarra è un po’ il mio modo per celebrarla.

Prima il mio era un cantare più parlato, ora lo è un po’ meno. Mi piace giocare con i testi un po’ come un poeta che gioca con le parole.

Hai una tecnica per scrivere?

Non ho un metodo preciso. Sono emozioni che si sentono dentro, in più non avendo un vero e proprio lavoro ho molto tempo per farle maturare. In testa ho sempre musica che mi gira.

Catturo un’immagine che sta li finché non diventa qualcosa, uno slogan.

Lo slogan poi diventa il pezzo forte della canzone, il ritornello, quello che ti porta al tema scelto.

La forma canzone per me non è stata una scelta, mi ci sono ritrovato.

Scrivi di getto?

Sempre. Per me è un’abitudine. Ha volte mi canto delle bozze, delle immagini sul cellulare. Poi con calma le riprendo e le rielaboro.

Prima facevo tutto subito, scrivevo testo e musica e la canzone rimaneva quella della prima stesura.

Adesso modifico, rivedo il contenuto, cerco le parole giuste. Per me il testo è fondamentale, la musica è funzionale al testo.

Nelle mie canzoni cerco di dire “cose”, non da maestro, ma da semplice osservatore, chiaramente con i miei occhi e le mie idee; i miei testi vogliono essere un misto di poesia e cronaca.

Diciamo una specie di cantastorie moderno.

La tua canzone preferita?

Non ce n’è una in particolare. Normalmente sono molto affezionato alle ultime, perché fanno parte di un percorso di crescita.

Nelle prime trovi i difetti di gioventù, anche se poi riascoltando quelle più vecchie mi sorprendo di aver scritto cose che continuano a piacermi e ad emozionarmi.

Progetti futuri?

Al momento faccio uno spettacolo accompagnato da un bravissimo batterista, ci sono dei musicisti che gravitano intorno con cui spero di fare qualcosa e sto lavorando per inserire un violoncellista che mi accompagni. L’idea mi piace molto.

Ma forse anche qualcosa con solo piano. Vedremo.

Cosa vuol dire per te salire sul palco?

Per me è come stare dentro una bolla.

Non capisci bene quello che ti succede intorno. Cerco sempre di non guardare il pubblico: osservo la mia chitarra, l’orizzonte.

Poi ti accorgi che c’è un respiro comune con la gente. Un forte scambio di energia. Nelle serate in cui tutto va per il meglio questa sensazione è quasi palpabile e come se fossimo un tutt’uno, io e il pubblico, il pubblico ed io.

Come senti dopo il concerto?

Mi sento ovattato. La bolla esplode e ti trovi la gente intorno che ti fa i complimenti, ti da la propria interpretazioni delle tue canzoni.

Mi arrivano un sacco di stimoli che mi restano li e che riesco a rielaborare solamente dopo un po’ di tempo.

Ho assistito ad un tuo concerto. Tu parli poco sul palco, è una scelta?

Penso che le canzoni parlino da sole.

Ila, perché la locandina dei tuoi spettacoli recita “Antautore in concerto”?

Diciamo che ci ha pensato il destino. Stavo preparando una locandina e nel scrivere cantautore la tastiere si è mangiata la “C”. Da quel momento è diventato immediatamente "Antautore" come segno di quel "distacco" (a livello poetico musicale) da tutto il fiorente mercato e dalla pretesa di voler fare a tutti i costi "musica d'autore" (intesa in senso "commerciale").

Consiglio di ascoltare dal suo myspace la canzone “Il figlio di papà”!

Questi sono i riferimenti di Ila:

myspace: www.myspace.com/leiden3

fb: http://www.facebook.com/pages/ilario-rosso/77051968745


Prossimi concerti di Ila:

6 FEBBRAIO “Notte rossa barbera”

http://www.facebook.com/home.php?#!/event.php?eid=465626655182&ref=mf
e
http://www.sottoilcielodifred.it/programma/gastronomia/notte-rossa-barbera

27 FEBBRAIO al Circolo Sud (via P.Tommaso 18 bis)

giovedì 21 gennaio 2010

EDDY, RUDE BOY SHOP

Eddy e la sua moto nel suo negozio!

Poco più di un anno fa passando per via Monti fui colpito da un nuovo negozio.

Mi fermai a guardare le vetrine e rimasi favorevolmente sorpreso dallo stile molto “british”, ero stato recentemente a Londra e l’ambientazione del locale mi riaccendeva molti ricordi.

Da li ad entrarci il passo fu breve. Il proprietario non era uno di quei classici venditori che ti saltano al collo e ti mettono pressione, feci il mio giro con molta tranquillità e me ne andai senza comprare nulla.

Era sicuramente un negozio per “Vespisti”, ma era anche un negozio per gli amanti dello stile casual britannico, lasciai il cuore sui gemelli Ben Sherman che già mi ero fatto sfuggire a Londra per motivi di “budget” e dalla cura ed originalità con cui era arredato il negozio.

Col passare del tempo tornai a guardare le vetrine e a fare acquisti, ma quello che mi colpiva di più erano le vespe in “manutenzione” che ogni tanto si intravedevano nel negozio.

Chiedere un intervista al titolare mi è sembrata la cosa più ovvia per appagare la mia curiosità.

Ciao Eddy, parlami di te.

Finita la scuola ho iniziato a lavorare per una persona che si occupava di memorabilia, soprattutto cartacea ed inerente al cinema, facevo del data entry per catalogare tutto il materiale accumulato in un magazzino. Per lui inizialmente era una passione, poi incominciò a diventare un business e poco dopo una società vera e propria.

Dopo due mesi mi promosse “direttore commerciale”, incominciai a viaggiare per l’Europa spesato di tutto, guadagnavo un sacco di soldi, soprattutto in rapporto all’età che avevo. Partecipavo alle fiere del settore o allestivamo mostre per musei.

Questo mi ha permesso di fare molte conoscenze e di imparare le lingue.

Si lavorava moltissimo con gli Stati Uniti, poi l’attentato del 2001 alle torri gemelle ha fatto crollare il mercato e la società in pochissimo tempo è fallita!

E tu?

Ho iniziato a fare altri lavori, ma i soldi erano sempre meno e le spese sempre alte. Mi ero abituato ad un tenore di vita molto elevato, così per risparmiare mi sono comprato una vespa, la macchina era troppo onerosa.

Sempre per risparmiare ho incominciato a riparare la moto. Mi piace fare lavori manuali e ci sono anche portato. Poi sono arrivate le Vespe degli amici, che riparavo in cantina e dopo quelle degli amici degli amici.

E il lavoro?

Ho fatto anche il gestore di siti porno nel frattempo, divertente, ma non il massimo dell’aspirazione.

Successivamente ho fatto il muratore per un anno in montagna, lavoro duro, di fatica, ma poter guardare una casa e pensare di averla messa in piedi dalle fondamenta da molta soddisfazione.

Alla fine ho preso un magazzino dove riparavo Vespe e contemporaneamente vendevo su e-bay materiale sempre per Vespe che compravo e poi risistemavo.

Questo spiega la passione per la vespa, ma come sei arrivato ad aprire Rudeboy?

Ho avuto dei problemi fisici di natura traumatica e per lavorare in officina non era il massimo. Per cui dovevo inventarmi qualcosa.

Durante una vacanza mi avevano proposto di aprire un’officina a Rodi ed un amico di fare lo stesso a Parigi, ma… la mia fidanzata era a Torino e alla fine ho preso tutti i risparmi che mi erano rimasti, mi sono fatto aiutare da mia madre e da mia nonna e nel dicembre 2008 ho deciso di aprire il negozio. Da questo punto di vista lo “stato” è stato latitante, di contributi non sono riuscito ad averne nessuno.

E poi amo Torino, anzi è quasi un rapporto d’amore ed odio e non so se sarei riuscito a starne lontano per molto.

Così da zero?

Si, mi piaceva la Vespa, avevo nel corso degli anni conosciuto molte persone che lavorano nel campo dell’abbigliamento e così ho pensato di unire queste due cose.

Che linee tratti, come scegli le cose che poi venderai?

Vendo solo materiale che sia inerente alla Vespa o alla filosofia della Vespa.

Tratto Merc, Vespismo, Three Stroke. Cerco di comprare da chi mi permette di fare ordini piccoli e di uscire con un prezzo al pubblico accessibile.

Le scarpe tipo clark me le fa un piccolo produttore toscano, le camicie le ordino da un camiciaio di Napoli ed i cappellini da un piccolo artigiano di Ancona.

Di fondo scelgo capi che piacciono a me o che indosserei io. Ci tengo molto alla qualità e possibilmente al fatto che siano prodotti in Italia. Le magliette invece le disegniamo io e la mia fidanzata.

Gli accessori da moto sono tutti funzionali e testati personalmente.

Un’ultima domanda Eddy, cos’è per te la Vespa?

La Vespa per me è un simbolo di vita. Vita libera perché ha due ruote e ti puoi godere il vento in faccia, ed essendo un ferro vecchio, con tutte le sue problematiche, è ancora più affascinante. E' Come una compagna: la vorresti perfetta in tutto e per tutto, ma sono proprio tutte le sue piccole imperfezioni e difetti che la rendono la compagna ideale... altrimenti che noia!

Per la cronaca: finalmente i gemelli brillano sulla mia camicia preferita!

Ecco come e dove trovare Eddy:
Rude Boy Shop, via Monti 11 bis - Torino
sito www.rudeboy.it
Email info@rudeboy.it
facebook http://www.facebook.com/profile.php?id=1679545700&ref=profile

venerdì 8 gennaio 2010

TURIN CALLING

TURIN CALLING

“… Torino chiama, si c'ero anch'io
E sapete cosa dicevano…
Bene qualche cosa era vera!
Torino chiama mentre arriva l'ora decisiva
E dopo tutto questo, non potresti sorridermi?
Non mi sono mai sentito così…“

Parafrasando i mitici Clash la chiusura della loro London Calling comprende un po’ il senso di questo blog.

Amo molto Torino ed in questi ultimi 2/3 anni per vicissitudini personali, vagando per le strade, nei locali, in birreria, ho conosciuto un sacco di persone cariche di idee, di progetti, con gli occhi vivi di chi ha il fuoco dentro, di chi crede in quello che fa e rischia anche qualcosa di suo.

Spesso la prima reazione nei loro confronti è di invidia o forse di rabbia verso me stesso ed il mio essere da buon torinese “bugia nen”, poi però l’energia che trasmettono diventa contagiosa e si trasforma in curiosità.

Non tutti hanno storie di successo, o forse è meglio dire che il successo in realtà è riuscire a fare quello che si ama o perlomeno tentarci.


Ho deciso così di provare a raccontare un po’ di queste storie, di far parlare tramite questo blog le persone che ho conosciuto e tutte quelle che spero di conoscere prossimamente. Perché se c’è una cosa che ho imparato è che la curiosità ti guida per una strada tutta sua e ti mette davanti persone che a loro volta ti rendono più curioso e ti danno una spinta per fare ancora un altro po’ di strada e conoscere altra gente e… insomma… per non stare mai fermi.


E allora partiamo, TURIN CALLING!